Il testo che state per leggere è scritto da Cristina Procida che ci racconta la sua esperienza personale con il Binge Eating Disorder.
Mi sveglio di soprassalto. Guardo il telefono: sono le 2.41.
Ho fame.
Mi giro dalla parte opposta del letto per rimettermi a dormire. Non ci riesco: ho fame, ancora; e non sembra andare via. Faccio un sospiro e cerco di tranquillizzarmi, ma il mio cuore inizia a battere a velocità sostenuta, fino a chiudermi la gola. Ho ansia, non riesco a dormire.
Mi alzo, vado in cucina e apro la dispensa: da qui tutto assume un contorno confuso.
Mi sono ammalata di Binge Eating Disorder nel 2023, giugno inoltrato, e per una discreta quantità di tempo ho pensato che fosse normale mangiare di notte e poi nascondere ogni cartaccia per dimenticarmi del crimine. Meno normale mi è parsa la modalità: l’ansia notturna e un senso di vuoto del quale non riesco di ricucire i contorni; la mia mente che prova a difendermi anche dal ricordo dell’abbuffata. Ma è veramente un’abbuffata? A giudicare dai dolori, pensavo tra me e me, sì.
D’altro canto, non è la prima volta che faccio una cosa simile: ho sofferto di binge eating tra i miei 12 e i miei 15 anni, solo che semplicemente non lo sapevo. La presenza ingombrante, l’elefante nella stanza di un DCA, ha occupato il suo posto solo quando l’Anoressia ha bussato alla mia porta, e io l’ho fatta entrare.
Il Binge è un mostro diverso: si insinua con sottigliezza, senza irrompere con prepotenza. E le motivazioni possono essere migliaia, tra cui il senso di vuoto e la totale disregolazione emotiva: l’incapacità di regolare in maniera funzionale la temperatura delle emozioni per far sì che non diventi febbrile e patologica. Se fossimo in Inside Out, sarebbe come se tutte le emozioni iniziassero ad urlare esageratamente, pretendendo di essere ascoltate. Di solito capita quando reprimiamo e poi implodiamo, sfogandoci con aggressività anche sul cibo che abbiamo davanti. Ed ecco che il cibo assume subito una connotazione emotiva, un elemento regolatorio, diventa un calmante naturale.
Ecco cosa puoi fare per aiutare chi soffre di un Disturbo Alimentare
Come possiamo aiutare qualcuno che ha trovato la sua parvenza di pace nel cibo? E come fargli capire, soprattutto, che quella pace è solo un effimero spiraculo che non ha nulla di reale?
Prima di tutto, eliminate ogni forma di giudizio. Prima di rapportarvi a qualcuno che soffre di un disturbo da alimentazione incontrollata dovete provare a fare tabula rasa di ogni giudizio che potrebbe venirvi in mente, compresi quelli che il mondo intorno a voi vi ha inculcato, che la società vi ha proiettato e nella quale siamo tutti immersi. È il primo passo: una volta sradicato il giudizio si può passare al secondo step: capire.
Andate online, guardate i contenuti degli esperti e le guide fornite dalle Associazioni di riferimento. Troverete materiale prezioso che servirà a farvi entrare nell’ottica che quella che per voi magari è “fame nervosa”, in realtà è una malattia psichiatrica grave e come tale va compresa.
La comprensione è un altro step importantissimo. Accettare ed entrare nell’ottica che qualcuno che ami è malato è qualcosa di molto difficile da accogliere emotivamente: tuttavia, fingere che sia qualcosa di normale servirà solo a esacerbare ulteriormente il sintomo e ad allungare i tempi di cura.
Quando si è capito, compreso e accettato ci si potrà avvicinare a chi soffre, ricordandosi di utilizzare una buona quantità di tatto e ascolto attivo.
Il senso di vergogna nel Binge Eating Didorder
Chi soffre di Binge Eating prova, generalmente, un forte senso di vergogna. In alcuni casi, questo si lega all’aumento del peso corporeo, cosa che potrebbe generare ulteriore smarrimento e imbarazzo. Ricordate sempre che nessuno sceglie di ammalarsi, e che quindi è importante aiutare l’altro nel cercare di verbalizzare le emozioni che prova. Verbalizzare qualcosa è importante: aiuta a tirare fuori le sensazioni ridimensionandole, e facendo sì che la comunicazione possa avvenire in maniera differente da quella del “cibo – corpo”. Inoltre, potrebbe ridimensionare anche il senso di vergogna e di imbarazzo.
Ho sentito alcune persone malate asserire che il “Binge Eating è un’Anoressia fallita”, e per certi versi una tale interpretazione è comprensibile. Spesso il Disturbo da Alimentazione Incontrollata trova maggiore espressione in persone che restringono la loro alimentazione a forza e poi, non riuscendo più a resistere, cadono nell’abbuffata. È stato anche il mio caso, ed è un loop che può interrompere solo un professionista: Non sostituitevi ai medici. Non siete gli psicologi o gli psichiatri del malato, ma potete fornire un grosso supporto emotivo: “Io sono qui per te, se hai bisogno di parlare” è una frase gradita.
Approcciatevi all’argomento con delicatezza. Ricordate il fare tabula rasa del giudizio? Ecco, immaginate di sentirvi perennemente in colpa, di sentirvi nudi, imbarazzati come se tutti vi stessero guardando (e giudicando). La persona malata si trova in questa condizione. E sapere che qualcuno ha notato qualcosa fa immediatamente scattare il panico: il modo migliore per affrontare questi sentimenti è dimostrare concretamente il non-giudizio.
Ricordo, ad esempio, che inizialmente per me fu tutto nuovo: caddi dalle nuvole quando mi ricoverarono. “Ma come” pensavo io, “io sono molto più che normopeso, cosa vogliono curare?” Ci misi qualche giorno a capire. Un corpo sano all’apparenza e dentro invece molto malato.
La famosa “chiamata” al centro per i Disturbi Alimentari la feci con le gambe tremanti e il mio fidanzato che mi teneva la mano. Piansi tanto. Ma quella mano tenuta stretta mi fece capire che non ero sola e mi diede l’input per fare qualcosa.
La storia di Cristina
Ad interrompere il loop, per me, furono i medici che riuscirono a convincermi che mangiare normalmente (cosa ho voglia, quanto ho voglia) non mi avrebbe fatto ingrassare a dismisura, ma continuare ad avere quel tipo di alimentazione mi stava creando danni fisici da fuori completamente invisibili. Quel ciclo senza fine fatto di notti passate in un angolo della cucina si è interrotto quando ho chiesto aiuto a degli specialisti, sono stata tenuta a mano ferma da chi avevo attorno, ma soprattutto quando ho deciso di provare a riscoprirmi permettendo all’altro di entrare. Un percorso difficile, lungo, ma sicuramente meno tortuoso con qualcuno accanto. La vostra presenza è il muro d’appoggio di chi si sta curando, ma non la cura. Per non avere più timore della cucina decidemmo, insieme al mio fidanzato (che per me è il corrispondente della mia famiglia), che avremmo cucinato insieme. Sapere che siete lì e che fate il tifo per noi è già di grande valore. Una volta capito, compreso, eliminato il giudizio e parlato con chi soffre non dovete fare altro che tenere chi amate per mano, mentre intraprende un percorso, che non sarà lineare, di recovery.
Chiedete aiuto anche voi, quando ne sentite il bisogno. Stare vicino a qualcuno che soffre può essere sfiancante e doloroso, prendetevi cura di voi stessi. È il primo passo per aiutare chi amate.