L’impegno terapeutico nel trattamento di un Disturbo Alimentare

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Miriam (nome di fantasia) entra in visita un po’ imbarazzata oggi, saluta con un sorriso e si siede rapidamente prendendo posto dietro il computer, in modo che non riesca a intercettare facilmente lo sguardo dell’interlocutore. Ha con sé una busta con disegnato sopra un unicorno azzurro e ci ha scritto sopra “per la mia dottoressa preferita”.

Apro il regalo ringraziandola. Nel frattempo, mi dice che quel dono “va spiegato”. Si tratta di una tazza a forma di fantasma. “È perché quando l’ho vista, ho pensato che la volta scorsa ti ho ghostato, e non volevo farlo“, afferma.

Ghosting: comportamento di chi decide di interrompere bruscamente una relazione sentimentale e di scomparire dalla vita del partner, rendendosi irreperibile.

Effettivamente, la volta precedente avevamo appuntamento per effettuare un pasto assistito e, per la prima volta in un anno di trattamento, Miriam non si è presentata senza avvisare.

Il racconto di Miriam, che si presenta in visita con un regalo che tenta di “spiegare” il suo comportamento precedente di disconnessione, apre uno spunto importante per esplorare le difficoltà psicologiche che i pazienti affrontano durante il trattamento, specialmente nelle fasi avanzate, quando la motivazione rischia di diminuire.

La paura di continuare un percorso di cura

Quando un paziente mostra segni di incertezza, come la sua improvvisa assenza senza preavviso alla visita precedente, si rende evidente quanto la motivazione possa essere precaria nel trattamento dei disturbi alimentari. Spesso, le prime fasi del trattamento sono più “facili”, in quanto il cambiamento è percepito come urgente. Ma man mano che il paziente inizia a vedere i primi progressi (come nel caso di Miriam che ha già recuperato peso, rotto regole dietetiche rigide, ripristinato i segnali di fame e sazietà), il timore del cambiamento può farsi sentire forte. La paura di perdere il controllo, di cambiare un comportamento che fino a quel momento è stato parte della propria identità, crea confusione e può causare il “drop-out” o l’interruzione del percorso terapeutico. Miriam stessa ne è consapevole, ma il suo atteggiamento complesso riflette la lotta tra la sua voglia di guarire e il bisogno di mantenere intatto il suo comportamento alimentare disfunzionale.

Molti pazienti con disturbi alimentari mostrano difficoltà nella consapevolezza della malattia e nella motivazione a seguire il trattamento, il che può ostacolare la loro partecipazione attiva al programma terapeutico. Per questo motivo, gli interventi nutrizionali devono essere accompagnati da un supporto psicologico e integrati in un piano di cura globale, che prenda in considerazione l’importanza di coinvolgere il paziente nelle decisioni terapeutiche e di affrontare con attenzione le sue difficoltà nella collaborazione.

Caratteristica tipica dei pazienti con disturbi dell’alimentazione è avere una scarsa motivazione al cambiamento. Questo accade tipicamente nei pazienti sottopeso o che hanno un peso soppresso molto elevato e una storia individuale di sovrappeso o obesità.

Perché si decide di intraprendere un percorso di cura da un Disturbo Alimentare?

La motivazione dovrebbe essere sempre un aspetto centrale nelle sedute con pazienti affetti da disturbi dell’alimentazione. È utile, infatti, rivedere periodicamente i motivi che hanno spinto i pazienti ad intraprendere il percorso di riabilitazione nutrizionale. Come nella fase di preparazione, anche durante il recupero è fondamentale aiutare i pazienti a mantenere una visione a medio-lungo termine sugli effetti positivi del cambiamento. È altrettanto importante, per chi sta facendo progressi, chiedere se alcuni effetti collaterali del sottopeso siano diminuiti o scomparsi.

Inoltre, è fondamentale aiutare i pazienti a collegare la loro motivazione al cambiamento con il comportamento effettivo e a monitorare qualsiasi fluttuazione nella motivazione stessa. Periodicamente, il clinico dovrebbe chiedere se la motivazione del paziente sia cambiata nel tempo e cosa potrebbe aver influenzato tale cambiamento. Questo approccio aiuta i pazienti a identificare i fattori che facilitano o ostacolano il cambiamento, così da affrontarli efficacemente.

L’egosintonia, l’ambivalenza e la negazione nei Disturbi Alimentari

Le persone con disturbi alimentari spesso vivono una serie di vissuti psicologici complessi e contrastanti. Un aspetto comune è l’egosintonia, ovvero la percezione che le manifestazioni del disturbo facciano parte della propria identità. Chi ne soffre tende ad identificarsi con il comportamento alimentare disfunzionale, considerandolo una caratteristica personale con cui si sente in sintonia. Ad esempio, comportamenti come il digiunare, ridurre l’alimentazione, abbuffarsi o mettere in atto metodi di compensazione vengono vissuti come tratti propri, come se facessero parte del proprio essere, con frasi del tipo: «L’impulso a digiunare, a restringere, ad abbuffarmi o a compensare sono tratti che mi appartengono».

Un altro vissuto frequente è l’ambivalenza, che si manifesta quando la persona vive un conflitto interno tra desideri e pensieri contrastanti. Questi possono avere lo stesso valore emotivo e logico, creando frustrazione e contraddizioni. Ad esempio, un paziente potrebbe voler guarire, ma allo stesso tempo non essere disposto a modificare comportamenti che gli procurano disagio, come nel caso in cui si dice: «Voglio curarmi, ma non credo di essere così grave» oppure «Voglio guarire, ma non voglio mangiare». In altri casi, si può esprimere il desiderio di mangiare, ma con il timore di aumentare il peso corporeo: «Voglio mangiare, ma non voglio aumentare il mio peso».

Infine, un altro vissuto comune è la negazione, che riguarda la difficoltà a riconoscere la malattia, spesso accompagnata dal rifiuto di accettare segnali oggettivi che suggeriscono il contrario. La persona tende a minimizzare o a ignorare la propria condizione, come nel caso di chi dichiara: «Non è vero che soffro di anoressia» o «È vero che soffro di bulimia, ma non è vero che mangio meno di quanto dovrei». Questa distorsione della realtà impedisce al paziente di affrontare pienamente il proprio disturbo.

Il percorso di recovery non è un strada lineare

È possibile sperimentare disorientamento, stanchezza e sfiducia, soprattutto quando la durata della riabilitazione nutrizionale supera i 12 mesi. A volte, il percorso di recupero può sembrare come un cammino che si fa più difficile e sembra di ‘tornare indietro’. In questi casi, mi piace usare una metafora per descrivere il processo: immagina che il paziente all’inizio del trattamento si trovi in una foresta fitta e buia, dove ogni passo è incerto, ma è anche familiare, perché quella foresta è stata la sua realtà per tanto tempo. La foresta rappresenta la zona di comfort della malattia, un luogo che, seppur oscuro e ostile, è stato vissuto come parte della propria identità (egosintonia).

Man mano che il paziente fa progressi e affronta le sfide del trattamento, si avventura fuori dalla foresta. Ma questo non significa che il percorso sia diventato facile: il terreno si fa instabile, e le difficoltà aumentano. Ora il paziente si trova in una palude di sabbie mobili, dove il terreno crolla sotto i piedi, e ogni passo verso il miglioramento sembra faticoso e minaccioso. Qui è dove può sorgere la paura, la sensazione che le cose stiano peggiorando anziché migliorare, spingendo il paziente a pensare di tornare indietro.

Ma è proprio in questa fase che il trattamento può raggiungere un punto cruciale: se il paziente viene supportato correttamente e riesce ad attingere alle risorse acquisite fino a quel momento, forte della consapevolezza di poter superare la palude, riesce ad avanzare oltre, proseguendo verso il vero cambiamento. La paura di non riuscire o di ‘tornare indietro’ è comune, ma spesso è solo una fase temporanea. Il trattamento non è lineare, e le fluttuazioni sono normali. Proseguendo, il paziente comincia a superare la paura e ad affrontare il percorso con maggiore consapevolezza, sapendo che la guarigione è possibile.

Il ruolo dell’accordo terapeutico

Uno strumento utile in tal senso può essere l’accordo terapeutico: si tratta di un accordo formale e collaborativo tra un paziente e un professionista della salute che stabilisce gli obiettivi del trattamento, i ruoli e le responsabilità, i metodi terapeutici, la confidenzialità, la valutazione dei progressi e i termini di interruzione del trattamento. Questo contratto è finalizzato a creare un quadro chiaro e strutturato per la cura, in modo che entrambe le parti siano consapevoli dei rispettivi impegni; è importante per creare un rapporto di fiducia e trasparenza, nonché per assicurare che il trattamento avvenga in un contesto di responsabilità reciproca.

Nella stanza della terapia, paziente e professionista lavorano insieme nella stessa direzione e le risorse (materiali, fisiche ed emotive) che vengono impiegate provengono da entrambe le parti. Stabilire a priori i confini di questa stanza può aiutare.

Il lavoro terapeutico è un lavoro di squadra

Il trattamento non è solo un lavoro di confronto con la malattia, ma anche una continua ricerca di consapevolezza, di comprensione dei propri vissuti e di costruzione di una nuova relazione con il corpo e con il cibo. Il supporto psicologico, unito agli interventi nutrizionali, è essenziale per accompagnare il paziente in ogni fase della riabilitazione, aiutandolo a rimanere ancorato ai propri obiettivi di cambiamento, anche quando il percorso sembra segnato dalla stanchezza e dalla sfiducia.

Un aspetto fondamentale da considerare è l’impegno economico e personale richiesto dal trattamento. Il costo delle terapie può rappresentare un fattore significativo nella continuità del percorso terapeutico. Nei casi in cui i pazienti non pagano direttamente per il trattamento, si è osservato che la frequenza del “drop-out” tende ad aumentare. Questo fenomeno può essere legato a una minore percezione di responsabilità o a una mancanza di consapevolezza dell’importanza di ciascun passo del percorso. Investire nel trattamento, sia a livello economico che emotivo, implica una forma di impegno che può rafforzare la motivazione del paziente e aumentare le probabilità di successo. La terapia, infatti, è un processo che richiede non solo una partecipazione attiva, ma anche un coinvolgimento profondo da parte del paziente.

Attraverso un lavoro condiviso, che include la comprensione e il rispetto dei confini e delle risorse reciproche tra paziente e professionista, è possibile far luce anche nei momenti più bui del trattamento, come una lanterna che guida il cammino. La consapevolezza dei propri progressi, anche se piccoli, e la riflessione continua sulla motivazione sono strumenti che permettono di affrontare la paura del cambiamento, superare le difficoltà e, infine, raggiungere una guarigione che non significa solo risanare il corpo, ma anche ritrovare il proprio equilibrio psicologico ed emotivo. 

La presenza del paziente, intesa come presenza totale non solo fisica ma mentale, è davvero un fattore imprescindibile per la riabilitazione. La chiave non sta nel fare un percorso lineare, senza alti e bassi, senza paura, quanto piuttosto: avere coraggio, presentandosi dopo aver saltato un appuntamento con una tazza a forma di fantasma tra le mani tremanti. 

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