La relazione tra l’identità sessuale (identità di genere e orientamento sessuale) e la sintomatologia alimentare è stata considerevolmente oggetto di ricerca nell’ultimo decennio, alla luce delle già significative evidenze cliniche, sottolineando una maggior prevalenza di tali disturbi nelle persone LGBTQIA+.
Secondo la National Eating Disorders Association (NEDA) e la National Association of Anorexia Nervosa and Associated Disorders (ANAD) – due delle più importanti associazioni al mondo nella lotta ai disturbi alimentari – le persone LGBTQIA+ presentano un rischio fino a 12 volte maggiore di sviluppare un disturbo alimentare nell’arco della vita, rispetto alle persone etero-cisgender.
“Un messaggio che avrei voluto sentire prima nella mia vita è venuto da un insegnante che una volta mi ha detto: ‘non sei rotto o sbagliato’. Se c’è un messaggio che vorrei che tutti potessero sentire il prima possibile nella loro vita, è questo. Possiamo lottare immensamente, possiamo ammalarci e aver bisogno di supporto per guarire, possiamo attraversare periodi in cui semplicemente non stiamo bene. Abbiamo un valore intrinseco, e abbracciare noi stessi per quello che siamo non è l’opposto di abbracciare il cambiamento. Guarire da un disturbo alimentare, o attraversare qualsiasi altra esperienza dolorosamente trasformativa, non significa che dobbiamo ‘aggiustarci’. Perché anche quando dobbiamo curarci, siamo già abbastanza.”
Quali sono le sfide che affrontano le persone LGBTQIA+?
Sappiamo che i disturbi alimentari sono patologie psichiatriche – con significative ricadute sul piano organico e sociale – altamente complesse e sfaccettate, e che non sia possibile rintracciare una singola relazione lineare causa-effetto che ne motivi l’insorgenza in modo esaustivo. È altrettanto noto però come alcuni fattori possano predisporne l’insorgenza, all’interno di un sistema eziopatogenetico – che riguarda le cause e l’origine della patologia – multifattoriale. Questi fattori possono essere di natura biologica, relazionale, temperamentale, traumatica, culturale, socio-economica e altre ancora. Alcuni di questi, specie gli ultimi tre citati sottoforma di esperienze di stigma, discriminazione, violenza ed eventi traumatici, possono essere frequentemente sperimentati dalle persone LGBTQIA+ incrementando il rischio di sviluppare un disturbo alimentare.
Più nello specifico possiamo trovare:
- esperienze di rifiuto da parte dei cari e della società per la propria identità sessuale e/o timore del suddetto rifiuto, con conseguenti affetti ansioso-depressivi;
- esperienze traumatiche -come aggressioni e violenze fisiche, verbali o psicologiche- su base omolesbobitransqueerfobica e/o timore delle suddette esperienze traumatiche, con conseguenti affetti ansiosi e di ipervigilanza;
- stigma sessuale interiorizzato (credenze negative interiorizzate relativamente alle identità non cis – eterosessuali);
- sentimenti di isolamento, colpa, vergogna e mancanza di supporto sia in famiglia sia nelle relazioni interpersonali generali;
- sentimenti di inadeguatezza relativamente agli ideali di immagine corporea promossi all’interno delle comunità LGBTQIA+;
- impossibilità di intraprendere progetti di vita familiare e/o genitoriale, con significative ricadute sulla qualità e sulla soddisfazione della vita.
Queste considerazioni trovano un’efficace teorizzazione all’interno del costrutto del Minority Stress, proposto da Meyer già nel 1995. Con questa particolare declinazione dello stress, tradotta in italiano con “stress da minoranza”, si intende tratteggiare la peculiare condizione di stress a cui sono sottoposte le persone appartenenti a minoranze – che siano etniche, culturali, religiose, politiche, sessuali e via dicendo- in contesti in cui sussista una rilevante parte maggioritaria non propensa all’inclusione delle stesse.
Le minoranze sessuali in particolare possono vivere un ulteriore fattore di stress, perché alle esperienze di stigma, discriminazione ed esclusione esperite in società, si aggiungono quelle sperimentate in famiglia. Al contrario di una persona di minoranza etnica, ad esempio, che rientrando in casa può trovare sostegno, rispecchiamento, empatia e condivisione del proprio vissuto minoritario nei familiari – anch’essi appartenenti alla stessa minoranza-, una persona appartenente ad una minoranza sessuale può non trovare lo stesso supporto in famiglia. Anzi, a volte il contesto domestico può proporsi come quello maggiormente osteggiante verso il soggetto, richiedendogli – più o meno violentemente ed esplicitamente – di reprimere la propria identità e i propri affetti.
Alla luce di tali considerazioni, e visti i numerosi studi che riconoscono negli stressors significativi fattori di rischio per l’insorgenza di psicopatologie di varia natura – tra cui i disturbi alimentari -, è possibile riconoscere nella popolazione LGBTQIA+ un maggior rischio psicopatologico.
Le sfide si estendono all’area del trattamento negli adolescenti
Le difficoltà si intensificano se si considera la popolazione adolescente, che richiede una formazione specifica per la formulazione di una corretta diagnosi e di un efficace piano di trattamento. Il supporto ad un adolescente che presenti un sintomo alimentare, e contemporaneamente delle difficoltà ascrivibili all’affermazione della propria identità sessuale, richiede il coinvolgimento di professionisti con una formazione complessa e specifica nell’intersezione di tali aree.
Inoltre il timore di essere discriminati – o quantomeno di una non totale accoglienza e comprensione delle proprie difficoltà anche sul piano sessuale e identitario – anche nel contesto clinico, può causare una tardiva richiesta d’aiuto da parte delle persone LGBTQIA+. Questo nel tempo può portare a un intensificarsi della sintomatologia e ad un accesso alle cure solo in una fase di acuzie e di cronicità del disturbo, e conseguentemente a maggiori difficoltà nel trattamento e ad una prognosi meno positiva.
Ciò si complica ulteriormente nel caso delle persone transgender, che possono incontrare difficoltà ancor maggiori a causa dello stigma, di lacune istituzionali, della mancanza di formazione specifica a riguardo che pervade – purtroppo – anche alcuni contesti di cura
Alla luce di ciò si conferma quanto ampiamente affermato in letteratura, relativamente all’importanza di una presa in carico da parte di un’equipe che non sia solo multidisciplinare – parte psicologica, nutrizionale, medico internistica – ma anche specializzata nel trattamento dei disturbi alimentari in età evolutiva.
Le sfumature a cui è importante prestare attenzione
Quando si considerano le specificità che le persone LGBTQIA+ affrontano nel panorama dei disturbi alimentari, è importante tenere a mente che i comportamenti alimentari disordinati (come l’abbuffarsi, la restrizione o il compenso) non corrispondo necessariamente alla presenza di disturbo alimentare conclamato, ma possono predisporne allo sviluppo.
Un tema particolarmente centrale per le persone LGBTQIA+ risulta essere quello dell’immagine corporea e dell’in-soddisfazione legata a essa. A conferma di ciò può essere utile considerare i risultati dello studio “Body Uneasiness and Dissatisfaction Among Lesbian, Gay, Bisexual, and Heterosexual Persons” (Muzi et al., 2023), condotto nel 2023 su un campione di 1231 persone cisgender di nazionalità italiana. Dalla ricerca è emersa nettamente una maggior insoddisfazione corporea negli uomini non eterosessuali rispetto a quelli eterosessuali, e la correlazione di tale disagio con modelli alimentari disfunzionali, minor qualità della vita salute correlata e autostima, e un maggior distress psicologico. Tali risultati confermano, anche nella specifica popolazione italiana, quanto affermato in letteratura (Petrocchi et al., 2020) circa la maggior vulnerabilità degli uomini non-eterosessuali rispetto al disagio corporeo e ai sintomi psicopatologici e alimentari a esso correlati. Per quanto riguarda i risultati nella popolazione femminili, dai quali emerge una netta prevalenza di sintomi alimentari rispetto a quella maschile ma differenze intergruppo più miste e complesse, si rimanda al suddetto articolo.
Lo stesso studio sottolinea inoltre – alla luce della teoria dell’oggettivazione sessuale (Brewster et al. 2014) e del Minority Stress (Meyer, 2003) – l’impatto negativo che l’interiorizzazione di sentimenti, atteggiamenti, credenze e convinzioni negative sulla propria identità sessuale (stigma sessuale interiorizzato) può avere sulla percezione di sé a livello identitario complessivo e corporeo, con ulteriori ricadute negative sulla salute e il benessere mentale.
Cosa possiamo fare?
Ci sono molti fattori da considerare quando si valuta il panorama dei disturbi alimentari nella comunità LGBTQIA+.
A livello clinico-istituzionale si auspica una maggior e più adeguata accessibilità alle cure, attraverso una formazione dei professionisti clinici specifica e aggiornata alla luce delle recenti evidenze scientifiche.
A livello sociale si conferma la necessità di contrastare le forme di stigmatizzazione, discriminazione e violenza in tutte le sue forme e in ogni contesto, sottolineando l’importanza che ogni individuo detiene in tale dinamica di rispetto ed inclusione delle marginalità e delle minoranze.
A livello individuale si invita, chi si trovi ad affrontare un disturbo alimentare, a rivolgersi a professionisti specializzati nella diagnosi, valutazione e trattamento di tali disturbi, ed eventualmente nel loro intersecarsi con temi di natura sessuale e identitaria, come nel caso delle persone LGBTQIA+. Lo stesso invito si rivolge alle famiglie e ai cari, soprattutto nel caso di adolescenti e/o bambini che vivono questa sorta di disagi: la letteratura evidenzia chiaramente che il primo fattore per una prognosi positiva risieda nella tempestività di una presa in carico efficace. Prima si agisce, maggiori sono le probabilità di un recupero positivo e globale della salute psico-fisica.
A livello generale, ma non per questo meno centrale, si ricorda che dietro ai sintomi alimentari si cela una sofferenza che non riesce a trovare voce. Che non riesce a trovare altro canale d’espressione, se non il corpo e il cibo. Il corpo diviene un teatro per mettere in scena il proprio dramma personale, che altrimenti rimarrebbe muto.
Dietro a un sintomo alimentare è nascosta una richiesta d’aiuto, e al tempo stesso il tentativo di far fronte – come si può – ad un dolore che sembra innominabile. Ma innominabile non è: occorre “solo” trovare uno spazio sicuro dove poter trovare le parole giuste. Insieme.
“Give sorrow words; the grief that does not speak knits up the o-er wrought heart and bids it break.
Date parole alla sofferenza; il dolore che non parla sussurra al cuore sovraccarico, e gli ordina di spezzarsi.”
(William Shakespeare, Macbeth, Act 4, Sc 3, lines 209-210, 1606).
Bibliografia
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